Love, love, love
Love, love, love
Love, love, love
Beatles, All you need is love
Continua da Il Grande Sequesto Londinese – Seconda Puntata
Mi rasserena notare che non ha l’aria pericolosa – l’avermi aperto la porta in pijama non sembra esattamente un tentativo di piacionaggine. Lo seguo su per scale ripide, passiamo davanti a una porta sul mezzanino – Questo è l’ufficio, dove lavoreremo. MI ritrovo subito dopo in una casa inglese, le pareti spesse come carta da forno, la moquette ovunque ma non in cucina – tuttavia nel cesso, come scoprirò dopo.
Cucina e bagno, ok, restano una camera da letto matrimoniale e un salotto che sbircio avere il pavimento ricoperto di giochi da bimbo, tipo i Lego Duplo e i Chicco Educational da 0 a 5 anni. Non vedendo bimbi in giro, un reflusso d’ansia mi suggerisce che potrei essere da sola in compagnia di Rain Man e della sua mutanda.
Mi fa strada nella camera da letto – pareti bianche di svizzero nitore, l’armadio a muro dove mettere i vestiti se voglio, e un mobile dove poter appoggiare le mie cose. Mi cade l’occhio su un lettino da bimbo, m continuo a non vedere il bimbo. Ci diamo la buonanotte coi sorrisoni, coi ‘Riposati!”, coi Sognidoro. Lui dormirà sul divano, io chiudo la porta a chiave, ci incastro una sedia sotto la maniglia e verifico che non ci siano porzioni del bambino sotto il letto. Avviso casa che è tutto ok – poco, poco convinta.
Il giorno dopo si inzia parlando del piu e del meno davanti al nescafe (è li che m’è iniziata l’assufazione, si) e ritirandoci poi nell’ ufficio – 15 metri quadri pieni di cavi di rete e aroma di Camel Light – nulla meglio della moquette per imprigionare tabagismi stratificati. Il tempo scorre rapido e io non ho cuore di chiedere se ci sia un bambino in giro, fondamentalmente terrorizzata dalla risposta che potrei ottenere – dal “No, perchè?” – al “Si, è nei tupperware“.
Arriva la fine giornata, concordiamo che dopo le 18 liberi tutti, e quindi approfitto per fare un giro per Londra. Ci son già stata, ma ora ho modo di vedere posti meno mainstream, e vado a rilassarmi a Little Venice, un posto vicino casa, che come tutti i posti con dei canali, è ovviamente indicato come la Venezia del luogo, vissuta da gente che abita i battelli ormeggiati. Immagino per motivi legati alle tasse, ma come mi ha raccontato un autoctono che giorni dopo mi ha offerto un the sul suo fazzoletto di banchina, pare sia molto divertente svegliarsi con un culo d’anatra adagiato sul finestrino-tettuccio della cabina in cui dormi.
Torno a casa che è sera, e finalmente mi tranquillizzo trovandomi di fronte a quella che immagino essere la famiglia del capo, che, nuovamente in pijama, da questo momento e per puro vezzo narrativo inizieremo a chiamare Jack Torrance . Il bimbo – si, esiste davvero e in questa sede lo chiameremo Danny – di 4 anni, che si esprime un 40% in italiano e un 50% in inglese, lasciando il 10% a delle grida da gabbiano probabilmente in lingua urdu, va in giro in monopattino. Una donna sui 35 che per continuità narrativa chiameremo Wendy, mi saluta senza staccare gli occhi dalle proprie unghie, che non smette di divorarsi. E’ sicuramente un bel quadretto, questo, in cui si puo’ già delineare il sereno rapporto che mi legherà alla famiglia Torrance, per fortuna solo per un altro giorno e mezzo.
All’alba del giorno due, inizio a notare piccole evidenze qua e là. La prima, è sicuramente che non si capisce che fine facciano Danny e Wendy quando calano le tenebre. La seconda, è che il bagno oltre a essere moquettato, per la gioia di qualunque ispettore sanitario, è anche mansardato, io ci sto a malapena in piedi e sono alta un metro e un cazzo. Una sera, Jack mi racconterà, sotto lo schiaffo della quarta pinta che sì, lui per pisciare in piedi apre la finestra a soffitto e mette la testa fuori, cosi’ da condividere col vicinato ogni minzione. Il mio più grande rimpianto, ad oggi, è che all’epoca non esistessero droni per fotografie aeree.
Altro spunto di riflessione è la scatoletta appoggiata sul comodino accanto alla mia testa. Insomma mi pare ‘na radiolina di quelle da stadio, c’ha sto led rosso sempre acceso e mi piacerebbe davvero ascoltare qualcosa ma nn capisco come. Scendo in ufficio per la seconda giornata di training-on-the-job e – “Scusa Jack, ma quell’ aggeggio sul mio comodino..”
“Ah si, quello è per i beetles, qua vanno un casino purtroppo!”
Io che mai, davvero, mai mai capisco un cazzo di cosa la vita mi suggerisca, esplodo con un:
“Ma dai ma io li adoro!! Il mio preferito è il Magical Mistery Tour! E il tuo?”
“No, Ila. Le blatte.. Sono ultrasuoni per le blatte”.
Tra il pranzo e la cena riappaiono in casa Wendy e Danny. Si pranza insieme, scopro che Wendy è calabrese e che mi fissa quando son distratta, guardandomi con occhi fermo immagine come Venusia che osserva il nemico prima di abbaterlo con le tette sparamissile.
Di nuovo fine giornata, di nuovo faccio un giro. Prendo il bus, vado al Marble Arch, Londra è splendida in questo periodo e Hide Park è ancora aperto. Ultima possibilità di fare un giro, che domani pomeriggio ho l’aereo e mi attardo un po’, tanto ho le chiavi. In salotto, la famiglia Torrance è riunita davanti alla tv a vedere The Apprentice, un programma che in Uk va fortissimo e che ho amato tantissimo (salvo poi ritrovarmi anni dopo di fronte alla versione importata qui in Italia con Briatore al posto di Sir Alan Sugar e rivedere le mie posizioni).
In questa situazione conviviale – io che gioco col bimbo seduta per terra, dopo aver ordinato cibo d’asporto, credo il primo Pad Thai della mia vita – Wendy mi chiede se l’aiuto ad aprire il vino, e mentre siamo in cucina mi chiede con una voce calma come quella della pubblicità che chiede all’amica cosa usa per quel fastidioso prurito intimo:
“Sai che stai mandando all’aria la mia famiglia, vero?”
Ma perchè cazzo ogni cosa in cui mi trovo prende pieghe da sceneggiatura malandata?
“Tu sei qui che dormi nel mio letto mentre io sono costretta a stare col bimbo a casa di mia madre. Come pensi che mi faccia sentire?” – ah, quindi è li che si ritirano. Capisco il disagio ma ‘manco dovesse tornare a Lamezia ogni sera.
Mi ritrovo sui mattoni bianchi e neri della cucina – unico luogo con esenzione moquette, proiettata in un film di Tim Burton in cui la pazza di fronte a me che per l’occasione sarà ovviamente interpretata da Helena Bonham Carter me sta per ordinare a qualcuno di tagliarmi la testa.
Cerco giustificazioni da addurre al fatto che son stata praticamente catapultata in UK a calcinculo non esattamente per mia scelta, quando entra il piccolo Danny, e in preda alla luccicanza, tipica del suo personaggio, inizia a parlare alla madre farfugliando fame, sonno a altri disagi.
“Per fortuna che domani te ne vai.” – mi fa, simulando sorrisone.
Fortuna.
To Be Continued – Prossima Puntata
Chi scrive ‘sta roba?
Ciao, sono Ila
Rammendo buchi di sceneggiatura da oltre trent'anni